mercoledì 9 febbraio 2011

Nucleare: serve più informazione o disinformazione?

NUCLEARE, DIVULGAZIONE SCIENTIFICA ED EMOTIVITA': UN'ANALISI

di Sergio Zabot

Parlando a Milano, durante il primo appuntamento dei “Dialoghi sull’energia”, organizzati da A2A alla Casa dell’energia, Chicco Testa ha lamentato la carenza di professionisti dell’informazione sui temi energetici, con particolare riguardo al nucleare, cosa che ostacola i dibattiti pubblici razionali e generalizzati. Fin qui nulla di strano; la tesi è condivisibile e si può discuterne. Ma poi Testa si è spinto oltre e ha enfatizzato la necessità di far leva su una emotività favorevole al nucleare che sfrutti le paure dei cambiamenti climatici e della sicurezza degli approvvigionamenti energetici. Come chiedere ai giornalisti di ingannare i lettori perché il fine giustifica i mezzi…

Agli ambientalisti Testa imputa la contraddizione di opporsi a una fonte di energia elettrica in grandi quantità che non genera CO2, e al mondo politico e al pubblico in genere, invece, la contraddizione di vincolare la sopravvivenza del sistema produttivo e dello stile di vita italiano a personaggi inaffidabili come il leader libico Gheddafi e a situazioni non controllabili direttamente come il rapporto Russia-Ucraina.

Ebbene, il nostro umanista hegeliano ignora, o meglio nasconde il fatto che per produrre le 40 tonnellate l’anno di uranio che servono per alimentare un reattore Epr da 1.600 megawatt, come quelli che si vorrebbero costruire in Italia, occorre partire da qualcosa come 8 milioni di tonnellate di roccia, equivalenti alla piramide di Cheope, che vanno prima estratte, macinate, poi diluite con 1,4 milioni di metri cubi di acqua e 22mila tonnellate di acido solforico, per ottenere alla fine 350 tonnellate di yellowcake, un ossido che contiene lo 0,7% di uranio fissile, più l’equivalente, appunto, di una piramide di Cheope all’anno di scarti.

Poi quest’uranio va arricchito per incrementare la parte fissile, cioè l’uranio 235, almeno al 3,5%. L’arricchimento avviene per centrifugazione trasformando l’uranio in gas, l’esafluoruro di uranio. Per fare questo servono 370 tonnellate di fluoro, gas molto leggero, altamente volatile e che alla fine del processo è altamente radioattivo, impossibile da smaltire e che comporta una gestione molto onerosa.

Finalmente si ottengono 40 tonnellate di uranio combustibile in forma di biossido di uranio, oltre che 250 tonnellate di uranio impoverito, che poi tanto povero non è, dato che contiene ancora lo 0,3% di uranio fissile, quindi radioattivo.

In conclusione, per far funzionare un reattore Epr per un anno si consuma energia pari a 190mila tonnellate di petrolio con l’immissione in atmosfera di 670mila tonnellate di CO2.

Poca cosa, dato che ciò corrisponde a soli 56grammi di CO2 per ogni chilowattora che verrà prodotto. Se però consideriamo che la costruzione della centrale è responsabile dell’emissione di altri 12grammi di CO2 al chilowattora e che la gestione delle scorie comporta un “debito” stimato tra i 30 e i 65grammi di CO2 per chilowattora, arriviamo a una cifra che oscilla tra i 96 e i 134grammi di CO2 per ogni chilowattora che sarà prodotto dalla centrale atomica, circa un terzo delle emissioni di un ciclo combinato a gas.

Ma la pacchia dura fino a che dura la disponibilità di minerale con concentrazioni di uranio piuttosto elevate. Man mano che la purezza del minerale di uranio diminuirà, ci vorrà più energia fossile per estrarre l’uranio e le emissioni di CO2 arriveranno inevitabilmente a eguagliare le emissioni di una centrale a gas.

Per quanto riguarda la paure della sicurezza dell’approvvigionamento energetico, questa è una delle più forti pressioni ideologiche e mediatiche operate per convincere gli italiani della necessità dell’energia nucleare: il petrolio proviene in prevalenza dai paesi arabi, il gas dalla Russia di Putin e dalla Libia di Gheddafi, tutti paesi politicamente inaffidabili, per non parlare del Venezuela di Chavez e della Bolivia di Morales che nazionalizzano le industrie del petrolio e del gas.

Ebbene, pochi sanno che su un fabbisogno mondiale annuo di circa 70mila tonnellate di uranio, solo 20mila tonnellate, pari al 28%, provengono da paesi cosiddetti “stabili”, quali Australia, Canada, Usa. Altre 20mila tonnellate arrivano da Kazakhstan, Russia, Niger, Namibia e Uzbekistan, Paesi non particolarmente “stabili”. Infine, 30mila tonnellate necessarie a equilibrare il fabbisogno dei reattori nucleari provengono dagli arsenali militari russi in smantellamento. Ora, caro Chicco, perché Putin dovrebbe essere inaffidabile quando ci vende il gas e diventare affidabile quando ci fornisce l’Uranio?

Un altro cavallo di battaglia dei fautori del nucleare, è che in Francia l’energia elettrica costa meno perché ha il nucleare. Di fatto le condizioni che hanno portato la Francia a diventare una potenza nucleare sono frutto dell’azione politica del generale De Gaulle per creare, in piena guerra fredda, un polo nucleare europeo a guida francese.

Il nucleare civile francese è nato in simbiosi con il nucleare militare, per ripartire gli enormi costi per produrre l’uranio e soprattutto per arricchirlo al cosiddetto “weapon grade”. Lo sforzo civile e militare francese è stato imponente e la maggior parte dei costi, dalla ricerca e sviluppo fino al trattamento del combustibile esausto non sono mai entrati nel costo dei chilowattora che i cittadini pagano in tariffa, ma sono nascosti nelle tasse che pure i francesi pagano. Non dimentichiamo che EdF, la società elettrica che gestisce le centrali nucleari è statale e che anche gli arsenali militari e gli impianti di arricchimento e di ritrattamento dell’uranio sono statali.

L’esperienza francese è irripetibile, soprattutto in un mercato liberalizzato dove i costi devono essere trasparenti e le attività industriali devono competere sul mercato. D’altra parte basta leggersi i rapporti della Corte dei Conti francese per rendersi conto delle gravi omissioni e dell’assoluta mancanza di trasparenza riscontrata nel settore nucleare e in particolare nel “decommissioning”, stigmatizzati regolarmente dai giudici francesi nei loro rapporti.

In un articolo pubblicato sul Quotidiano Energia il 4 giugno, Pippo Ranci, ex presidente dell’Autorità dell’energia, sostiene che la Francia mantiene tariffe amministrate per tutti i piccoli utenti, domestici e commerciali; che tali tariffe sono basse in modo da costituire una potente barriera contro l’entrata di concorrenti e che sono economicamente sostenibili finché EdF può utilizzare in esclusiva l’energia prodotta dalle vecchie centrali nucleari già ammortizzate e per le quali si ritiene vi sia stato un implicito sussidio statale almeno per quanto riguarda i costi di ricerca, sviluppo e ingegnerizzazione. E io aggiungerei anche per il ritrattamento del combustibile esausto che rientra nelle competenze dei militari e per il decommissioning, dato che EdF, stando a quanto denuncia la Corte dei Conti, non accantona le somme che dovrebbe.

Ora è innegabile che il successo referendario del 1987 sia stato determinato dall’emotività indotta della catastrofe di Cernobyl. Ma l’uscita dell’Italia dal nucleare non è stata determinata solo dall’emotività, ma anche da precisi calcoli politici ancorché ideologici.

Vale la pena di ricordare infatti che i quesiti referendari chiave erano diretti ad abolire le norme sulla localizzazione delle centrali nucleari e i contributi a Comuni e Regioni sedi di centrali nucleari, cosa che avrebbe reso impossibile trovare un Comune disposto a ospitare sul suo territorio un impianto nucleare o anche un deposito di scorie radioattive.

E’ anche il caso di ricordare, come a quell’epoca la Dc e il Pci fossero decisamente contrari ai quesiti proposti dal Partito Radicale, dal Partito Liberale e dal Partito Socialista. La prima strategia adottata dal Governo di allora contro i referendum fu quella dello scioglimento anticipato delle camere per lo stallo che si era prodotto nei rapporti tra Dc e Psi: protagonista fu Ciriaco De Mita, che decise le elezioni anticipate per rompere la convergenza di quei mesi tra i partiti laici e in particolare tra Craxi e Pannella.

Dopo le elezioni anticipate, di fronte all’appuntamento referendario, Dc e Pci, inizialmente ostili ai quesiti, si schierarono a favore del «sì». Questo repentino cambio di rotta dei due maggiori partiti derivava dalle implicazioni politiche che poteva provocare una eventuale sconfitta dello schieramento del «no» imperniato sull’asse Dc e Pci, in contrapposizione ad uno schieramento laico-progressista formato da Radicali e Socialisti.

La rilettura di quel periodo dimostra che il risultato del referendum del 1987, oltre ad essere stato frutto dell’emotività fu soprattutto figlio dell’ideologia. E’ corretto quindi affermare che quella scelta fu emotiva e ideologica.

Quello che è meno evidente è come già ora il rientro dell’Italia nel nucleare sia dovuto a un’altrettanta ondata emotiva ancorché ideologica, sapientemente pilotata da un Governo che mistifica i fatti e stimola le paure più ancestrali dei cittadini.

Ora, rispetto il 1987, la situazione si è ribaltata: gli emotivi di allora, ancorché mossi da una forte preoccupazione per le possibili conseguenze sanitarie e ambientali del fallout radioattivo, contestano il ritorno al nucleare su basi razionali e i sostenitori del nucleare implorano ora tale ritorno su basi emotive e ideologiche, quali la paura dell’aumento del costo del petrolio, l’inaffidabilità dei paesi produttori di gas naturale, la fatalità di uno sviluppo che ci porterà ad un consumo sempre maggiore di energia, l’inevitabilità che per salvaguardare il nostro pianeta e ridurre le emissioni di gas serra, si debba scegliere il male minore. Forse Chicco Testa non si è accorto che il suo sogno è già realtà e pretende ora che i “professionisti dell’informazione” assecondino le sue menzogne facendo leva sull’emotività favorevole della gente. Ne conosciamo un altro che ha deliri analoghi… ma questa è un’altra storia.

La verità è che l’efficienza energetica e le fonti rinnovabili sono in forte competizione con il nucleare e i sostenitori del nucleare mentono spudoratamente quando affermano che non c’è concorrenza tra nucleare ed efficienza energetica. Questa divergenza è destinata ad aumentare per due ordini di motivi.

In primo luogo, tutte le tecnologie dell’energia distribuita, comprese le tecnologie del risparmio energetico sono destinate inesorabilmente a diventare sempre meno care per via dei grandi volumi di produzione e dei miglioramenti continui che consentono di sfornare sempre più nuovi prodotti “più risparmiosi” dei precedenti. Questo non succede per gli impianti centralizzati e soprattutto per gli impianti nucleari che storicamente tendono a costare sempre di più, in contrasto con le cosiddette “curve di apprendimento delle tecnologie”. D’altra parte dalla progettazione di un componente nucleare fino alla sua realizzazione passano talmente tanti anni che, anche quando si inventano nuovi prodotti e nuove tecnologie, non è possibile utilizzarli immediatamente e bisogna aspettare che entri in produzione una nuova filiera.

In second’ordine, il mercato sta cominciando a riconoscere i benefici ottenibili con le tecnologie distribuite, sia in termini di profitti, sia per l’elevata ricaduta che questo comporta sui livelli occupazionali a livello locale. Il risparmio energetico, la produzione distribuita di elettricità e le fonti rinnovabili in particolare, cominciano a mostrare il loro potere dirompente per sfondare barriere che fino a poco fa sembravano impenetrabili, riducendo drasticamente i costi e migliorando le prestazioni. Solo in impianti di cogenerazione, in Italia si stanno installando centinaia di impianti all’anno per una potenza di 4mila megawatt l’anno. Stanno peraltro emergendo nuove classi di tecnologie, alcune ancora immature come il solare termodinamico o le celle a combustibile alimentate a Idrogeno, che sono destinate a rivoluzionare il mercato dei trasporti.

Le previsioni di Terna sull’evoluzione della domanda elettrica in Italia, aggiornate nel novembre 2008, indicano, secondo uno scenario cosiddetto “di sviluppo”, ovvero senza l’attuazione degli obiettivi di risparmio energetico, in 415 miliardi di chilowattora il fabbisogno di elettricità e in 74mila megawatt il fabbisogno di potenza al 2018.

Ora, senza entrare nel dettaglio di quanto inciderà il tracollo economico in atto sui consumi finali e spostando in prima approssimazione al 2020 il fabbisogno indicato da Terna al 2018, gli obiettivi del “pacchetto 20-20-20” comportano che al 2020 ci sia una riduzione di consumi finali di circa 80 miliardi di chilowattora e che altri 70 miliardi di chilowattora vengano prodotti con fonti rinnovabili. Il fabbisogno integrativo con fonti convenzionali, si riduce così a 265 miliardi di chilowattora di energia elettrica e poco meno di 60mila megawatt di potenza termoelettrica convenzionale, inferiore del 30% al fabbisogno elettrico del 2009 (350 miliardi di chilowattora) e del 22% inferiore alla potenza termoelettrica lorda installata attualmente (73,3mila megawatt).

A questo punto qualcuno ci deve spiegare dove è lo spazio per costruire 4-5 centrali nucleari che dovrebbero produrre 60 miliardi di chilowattora di elettricità all’anno, come chiede Fulvio Conti, amministratore delegato dell’Enel, quando già al 2020, attuando il “pacchetto 20-20-20” rischiamo un surplus che oscilla tra il 20% e il 30%.

Quello che preoccupa è che il nostro Governo, invece di rafforzare decisamente il sostegno all’efficienza energetica e alle fonti rinnovabili, stia stipulando patti faustiani con le lobby industriali e finanziarie, promettendo contratti miliardari per realizzare una filiera nucleare, estremamente rischiosa e costosa, garantita dallo Stato, quindi con i soldi dei contribuenti.

Di fatto il Governo rallenta lo sviluppo delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica, le vere alternative pulite, per far spazio agli interessi delle lobby nucleari e questi fondi verranno sottratti al dispiegamento di uno sviluppo duraturo e distribuito sul territorio, che solo l’efficienza energetica e le vere fonti rinnovabili possono produrre.

Nessun commento:

Posta un commento